Sacchi e il suo vice Rodoquino

SACCHI CAMPIONE D’ITALIA A CESENA

Arrigo Sacchi ha allenato la Primavera del Cesena dal 1979 al 1982, conquistando l’ultimo anno lo scudetto Primavera. All’epoca i bianconeri militavano in serie A e il tecnico di Fusignano sperava di essersi meritato una possibilità in prima squadra. La società fece altre scelte. Dal libro autobiografico “Arrigo Sacchi. Calcio Totale. La mia vita raccontata a Guido Conti”, pubblicato da Mondadori, riportiamo alcuni passaggi della sua esperienza a Cesena, la prima in un club professionistico, l’inizio di una carriera ricca di grandi successi.

Fu così che, a trentatré anni, decisi di diventare allenatore professionista.

Molti mi considerarono un pazzo: al Cesena guadagnavo in un anno quello che nel mio lavoro guadagnavo in un mese. Passavo dall’impresa di famiglia, da un posto sicuro, al mondo del calcio, un mondo dove spesso non si rientrava nemmeno delle spese.

Rimaneva un problema. Avevo solo il patentino di allenatore di terza categoria per dilettanti.

Al conte Alberto Rognoni, presidente onorario del Cesena (un uomo che ha creduto in me e mi ha sempre sostenuto nella mia idea di calcio) venne allora un‘idea geniale. A Coverciano avevano organizzato un supercorso riservato alle società professionistiche per creare un responsabile del settore giovanile. Parlò con Dino Manuzzi, presidente del Cesena: la società non mandava nessuno.

«Senza impegno, e il corso se lo paga lei». Ma non m‘importava. Volevo fare l’allenatore.

Tornato dal corso di Coverciano, allenai dal 1979 al 1982 la primavera del Cesena, società che ha sempre mostrato particolare interesse per il settore giovanile. Il Cesena, allora una delle squadre più importanti della Romagna, blasonata a livello nazionale, aveva avuto la possibilità di selezionare i ragazzi sotto tutti gli aspetti: tecnico, professionale, fisico e tattico. Dopo tre anni di lavoro, avevamo raggiunto una sincronia molto buona. Era una squadra matura, si muoveva a occhi chiusi: ogni giocatore sapeva come comportarsi nelle diverse fasi di gioco. In questo contesto, esplosero anche grosse individualità.

Nel Cesena erano tutti ragazzi molto bravi, seri, niente gelosie, niente invidie o manie di protagonismo. Avevamo seminato bene, e diventammo campioni d’Italia con la Primavera. Alcuni dirigenti, durante il campionato 1981-82, erano propensi ad affidarmi la panchina della squadra maggiore, che militava in A sotto la direzione di Gian Battista Fabbri, che aveva sostituto Bagnoli. Allenatore di qualità, Fabbri aveva un‘idea di calcio innovativa ma non la competenza didattica necessaria a trasmetterla ai giocatori. Privilegiava i piedi buoni e gestire le situazioni partita dopo partita. Nella seconda metà del campionato fu messo in discussione perché la squadra non navigava in buone acque.

Spesso la prima squadra e la primavera del Cesena si allenavano insieme.

Nella dirigenza si erano formati due gruppi: chi voleva che io andassi ad allenare in prima squadra e chi no. Il figlio di Manuzzi era favorevole, mentre il presidente, Edmeo Lugaresi, era contrario. «L‘allenatore non è un mago» sosteneva, e aveva ragione: con le giovanili del Cesena io avevo fatto tutto il contrario di quello che i giocatori della prima squadra avevano fatto nella loro carriera.

Non avevo alcuna credibilità, ero semisconosciuto come giocatore, e come allenatore avevo al massimo un‘esperienza nella quarta serie. Avrei proposto cose che avrebbero potuto mettere in difficoltà i giocatori. Così scelsero un altro. Fu la mia salvezza, frutto anche della lungimiranza di Lugaresi.

Sul momento ci rimasi male. Lugaresi aveva portato sulla panchina un amico di serie A: Renato Lucchi, Serviva uno come lui per prendere in mano la squadra e salvarla. Fabbri venne esonerato a quattordici partite dalla fine. Lucchi era un uomo all‘antica, con una concezione del gioco impostata così: dieci indietro e uno avanti, che poteva far gol solo per un guizzo e un‘iniziativa isolata in contropiede. E urlava, urlava come un pazzo ai giocatori: «Avanti, andate avanti» e con la mano faceva segno di tornare indietro. Tutto il contrario di quello che pensavo io del calcio.

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